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BOLOGNA IL COMPIANTO DI NICCOLO' DELL'ARCA

Il Compianto sul Cristo morto di Niccolò dell'Arca, che si trova a Bologna nella chiesa di Santa Maria della Vita, è un'opera di drammatica intensa e violenta.
Il 19 settembrel 1906 quando Gabriele D’Annunzio compie una visita alla chiesa di Santa Maria della Vita a Bologna e, di fronte al Compianto sul Cristo morto di Niccolò dell’Arca, si lascia suggestionare dalle sculture che ha di fronte a lui, al punto di riportare le frasi di cui sopra sui suoi Taccuini.
"Le Marie intorno sembrano infuriate dal dolore - Dolore furiale. Una verso il capo - a sinistra - tende la mano aperta come per non vedere il volto del cadavere e il grido e il pianto e il singulto contraggono il suo viso, corrugano la sua fronte, il suo mento, la sua gola. L’altra con le mani tessute insieme, con i cubiti in fuori, ammantata piange disperatamente. L’altra tiene le mani su le cosce col ventre in dentro e ulula"
Una opera molto denigrata dai critici dell'epoca perché in terracotta quindi ritenuta meno nobile rispetto a un’opera di marmo, e anche perché considerata grottesca.
Il Compianto sul Cristo morto ha ricevuto invece negli ultimi anni grandi apprezzamenti come opera unica, oltre a tante visite del pubblico.
Un viaggiatore che passi per Bologna non potrà non avere nel programma una visita al Compianto, tra l'altro in una zona di Bologna bellissima.
Quindi ... grande Niccolò dell’Arca!
Per vederlo, dobbiamo raggiungere la cappella a destra rispetto all’altare maggiore. Lì, separate da noi attraverso un cancello in ferro, che non ci impedisce comunque una piena visione del capolavoro, possiamo vedere le sculture in terracotta realizzate da Niccolò dell’Arca.
Al centro giace, ormai esanime, il corpo di Gesù: non un Gesù apollineo come quello a cui il primo Rinascimento ci ha abituati (la datazione dell’opera non è certa, ma ricordiamo che Niccolò dell’Arca si stabilì a Bologna negli anni Sessanta del Quattrocento), bensì un Cristo estremamente provato dalle sofferenze patite, magro, smunto, con la bocca socchiusa, che ci fa provare un misto di compassione per la sua condizione e disgusto per quanto ha subito, e che lo ha ridotto in questo modo. 
A fianco a lui, sulla sinistra, inginocchiato, un signore vestito in abiti rinascimentali, che osserva noi con sguardo corrucciato, quasi altero, forse per invitarci a riflettere: tiene il martello e porta alla cintura un paio di tenaglie, e questi strumenti lo identificano come Nicodemo, l’ebreo che, insieme a Giuseppe di Arimatea, tolse Gesù dalla croce.
Al centro, unico uomo in piedi, è san Giovanni: cerca di non farsi sopraffare dal dolore, prova a mantenere un contegno, ma questo suo tentativo non può comunque impedirgli di piangere amaramente mentre osserva il corpo senza vita del suo maestro.
È però nelle donne che la rappresentazione del dolore raggiunge il culmine. Maria, la vediamo alla destra di san Giovanni, si protende in avanti con il corpo, tiene le mani giunte e lascia che il suo volto sia vinto da una smorfia di acuto dolore, il dolore disperato di una madre che ha appena perso il figlio. 
Sull’estrema destra abbiamo la figura di Maria Maddalena, che corre verso Gesù, quasi come se la notizia della sua scomparsa la abbia appena raggiunta. La veste è sollevata dal vento, in anticipo di un paio di secoli sulle opere del barocco e di Gian Lorenzo Bernini, e anche lei è preda della disperazione: è una donna vera, naturale, che non può nascondere quello che sta provando. E lo stesso vale per le altre due donne, Maria Salomè e Maria di Cleofa: la prima, quella vicina a Nicodemo, assume una posa scomposta, e per non soccombere per lo strazio e dunque per non cadere, deve poggiare le mani sulle ginocchia quasi per sorreggersi, mentre sul volto dell’altra si legge un moto di orrore, confermato dal fatto che porta le mani davanti al volto, quasi a schermirsi da ciò che ha di fronte a sé.


La disperazione della Maddalena
Niccolò dell’Arca non conosce filtri. Il suo estro consiste nel fatto che ci offre un Compianto come nessuno aveva avuto l’ardire di rappresentarlo fino ad allora: senza la minima compostezza, quasi senza decoro potremmo dire, con questi volti sfigurati dal dolore. Talmente sfigurati che le Marie di Niccolò dell’Arca sono diventate proverbiali, a Bologna: di una donna poco attraente, rozza e trasandata, si dice che “sembra una Maria della Vita”. Basti questo a testimoniare da una parte la carica di straordinario pathos, fino ad allora sconosciuto, che questo scultore pugliese infuse alle sue sculture (che, peraltro, conservano ancora tracce della loro originaria policromia), e dall’altra la sfortuna che per lungo tempo caratterizzò il Compianto. Sfortuna che ci ha fatto anche perdere diverse informazioni sull’opera, a cominciare dal fatto che non sappiamo né per chi sia stata realizzata, né esattamente quando. Uno dei più grandi studiosi di storia dell’arte del secolo scorso, Cesare Gnudi, in seguito al ritrovamento di alcuni documenti, ipotizzò come data di realizzazione il 1463, benché spostasse agli anni Ottanta, per ragioni stilistiche, l’esecuzione delle ultime due figure, quelle di Maria di Cleofa e Maria Maddalena: è questa la datazione più largamente accettata. Non sappiamo neppure quale fosse l’esatta disposizione delle statue, perché nel corso dei secoli l’opera conobbe numerosi spostamenti: la disposizione che vediamo ora è frutto di una ricostruzione operata da un altro studioso, Alfonso Rubbiani, e che risale al 1922.
Ma da dove viene la grande forza che raffigura queste Marie di rilievo così sterminatamente piangenti, come ebbe a chiamarle Carlo Cesare Malvasia nel 1686? Buona parte di questa carica espressiva si deve alla tipicità dell’arte bolognese: l’anticlassicismo e la spontaneità sono sempre stati tratti tipici di gran parte delle opere prodotte a Bologna. Ma Niccolò dell’Arca, essendo pugliese (in molti documenti è infatti citato come Niccolò d’Apulia: il nome con cui è più celebre gli deriva dalla sua opera più famosa, l’arca di San Domenico), probabilmente aveva ben presenti i pianti violenti delle prefiche, donne che fin dall’epoca dell’antica Roma venivano pagate per piangere ai funerali, e si davano a lamenti plateali e a teatrali manifestazioni di dolore: un’usanza che per secoli fu praticata in molte parti dell’Italia meridionale. L’acceso dinamismo delle figure potrebbe essere inoltre spiegato con una buona conoscenza, da parte dello scultore, dell’arte della scuola ferrarese e dei suoi artisti, come Cosmè Tura, ma anche dell’arte di Donatello: tutti artisti votati a un’arte di forte impatto emotivo.


Altra visuale del Compianto sul Cristo morto di Niccolò dell’Arca
Di certo c’è che questa opera esercita un notevole fascino su chi la osserva. E probabilmente questo fascino sarebbe stato ancor maggiore se si fosse conservata l’originale policromia delle terrecotte. Terracotta che è il materiale per antonomasia della scultura emiliana: pensiamo per esempio a Guido Mazzoni o ad Antonio Begarelli. Fascino e notevole trasporto emotivo: un trasporto che si legge bene sui volti dei visitatori che ogni giorno entrano in Santa Maria della Vita per osservare il capolavoro di Niccolò dell’Arca. La sua potenza sta, del resto, anche in questo: riuscire a coinvolgere in modo così potente gli astanti a quasi seicento anni dalla realizzazione. Solo un grande artista riesce non solo a tramandare in modo vivissimo la sua memoria, ma anche a emozionare ancora oggi come allora.

Di Federico Giannini e Ilaria Baratta
 

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